Descrizione

CANTIERE • MUSEO.

Proposta per l’area del Cantiere Marmisti della Veneranda Fabbrica del Duomo di Milano

Morpurgo de Curtis ArchitettiAssociati

01.01.2017- in corso

 

Descrizione

 

 

 

 

Un altro miracolo a Milano

testo di Prof. Marco Biraghi, Ordinario di Storia dell’Architettura presso il Politecnico di Milano, 12 giugno 2017

 

La Milano del film di Vittorio De Sica, sceneggiato insieme a Cesare Zavattini e uscito nelle sale nel 1951, era una città tesa tra estrema periferia urbana, punteggiata di baracche e di orti, e centro cittadino, identificato con la piazza del Duomo. Qui la vicenda trovava il suo scioglimento finale: il volo sopra le guglie del Duomo a cavallo di un manico di scopa, un “miracolo” destinato a condurre i protagonisti «verso un regno dove buongiorno vuol dire veramente buongiorno».

 

Il progetto di Morpurgo de Curtis Architetti Associati per la sistemazione degli spazi esterni del Cantiere Marmisti della Veneranda Fabbrica del Duomo di Milano prova a ripetere quel miracolo, invertendone la rotta. La piazza del Duomo e il Duomo stesso con la sua foresta di guglie, vengono fatti volare verso l’estrema periferia urbana e infine deposti in fondo a viale Espinasse, tra Musocco e Quarto Oggiaro. Accanto al preesistente Cantiere Marmisti, in un territorio sfrangiato e prodotto di molteplici accumulazioni casuali, gli architetti inseriscono il piano di copertura del Duomo, ovvero quella «piccola piazza in pietra» che Aldo Rossi riteneva la piazza più bella di Milano.

 

È in questo spazio recintato dal vuoto, sommamente prezioso ma in un modo del tutto speciale anche sobrio e solenne, che il Duomo di Milano ritrova le sue radici autenticamente ambrosiane: ovvero pudore e capacità di misura. Anzi, proprio questa “piazza interna”, sopraelevata, ma al tempo stesso segreta; questa “piazza” posta al centro del centro del centro, ma insieme ritratta rispetto a una visibilità immediata; questa “piazza” affollata di statue e rivestita in ogni angolo di marmo rosa-grigio ossolano, è forse il distillato più puro di quanto vi è di milanese.

 

Durezza e intimità vi convivono a stretto contatto, si fondono addirittura in un unico spazio, ch’è poi uno spazio unico, assolutamente straordinario. Ed è su questo piano che il Duomo mostra la sua effettiva grandezza: che non è soltanto dimensionale o ornamentale, e non è neppure esclusivamente religiosa, bensì è anche ed indiscutibilmente civile.

 

Sulla civiltà di questa “piazza”, basti notare come le numerosissime statue che da lontano e dal basso potrebbero produrre lo spiacevole effetto di manichini sospesi a parete, precariamente poggiati su mensole o sadicamente esiliati in cima a spunzoni, viste da su tornano a diventare persone: essere umani che “umanizzano” a loro volta lo spazio, lo animano, gli conferiscono proporzione, misura, e al tempo stesso ne colgono la predisposizione a essere un perfetto luogo d’incontro.

 

Passeggiare sul tetto del Duomo è quanto più si avvicina, a Milano, a mettere piede nella Scuola di Atene di Raffaello, il cui cartone è conservato nella vicina Pinacoteca Ambrosiana, o a prendere parte allo Sposalizio della Vergine, che fa mostra di sé nella Pinacoteca di Brera.

 

Ricostruire questa “piazza” (o almeno, un significativo frammento di essa) a fianco del luogo in cui i frammenti del Duomo vengono portati per essere “curati” dai malanni accumulati nell’esercizio delle loro funzioni potrebbe risultare un gesto quasi paradossale: promuovere lo spazio residuale di un opificio dove si lavora la dura pietra, emarginato in una zona dimenticata della città, al rango di luogo monumentale, facendone una nuova centralità periferica. E più che paradossale – surreale addirittura – può apparire il gesto di “riprodurre” in copia un pezzo di edificio storico, secondo una modalità da architettura post-modern.

 

In realtà, nell’intervento proposto, Morpurgo de Curtis Architetti Associati reimpiegano la storia con un senso e un rigore del tutto sconosciuti ad architetti postmodernisti come Charles Moore o Robert Venturi. Nell’inversione di direzione da loro operata vi è infatti il disvelamento di un sorprendente “doppio senso” del Cantiere Marmisti, anziché la superficiale conferma dell’insensatezza attuale.

 

Il Cantiere Marmisti faceva parte in origine del cantiere della Cattedrale di Santa Maria Nascente, che si estendeva dall’abside della grande chiesa in costruzione fino all’attuale piazza Santo Stefano. Soltanto nell’Ottocento i laboratori per la lavorazione del marmo sono stati spostati in altre parti della città, per approdare infine in zona Certosa. Questa condizione di isolamento, funzionale alle esigenze della città contemporanea, ha fatto progressivamente dimenticare il valore del Cantiere Marmisti e il suo essere componente imprescindibile della Veneranda Fabbrica del Duomo. Ed è in questo nome ch’è contenuta la sua ragion d’essere: cioè a dire quella di attività produttiva non soltanto vetusta d’età ma anche – e soprattutto – “degna di venerazione”. Qualcosa come una forma di sacralizzazione del lavoro.

 

Storicamente, per i milanesi, la vita ha significato lavoro; e parimenti, per loro, Duomo ha significato Fabbrica del Duomo. È strano, ma in fondo coerente con la città che la ospita, che la massima chiesa di Milano sia anche e anzitutto una fabbrica: fabbrica centrale, a differenza delle molte altre che fino a qualche decina di anni fa popolavano le periferie; fabbrica perfetta, che non conosce mai crisi; fabbrica inesauribile, che si “autoriproduce”; fabbrica eterna, fabbrica interminabile.

 

È in quest’ottica che la necessaria conservazione del significato del Duomo di “fabbrica” mostra di dover necessariamente fare tutt’uno con la riattivazione del significato di luogo venerabile e memorabile del Cantiere Marmisti, che del Duomo costituisce una parte essenziale. Recuperandolo dal suo esilio, sottraendolo al suo oblio, il progetto di Morpurgo de Curtis Architetti Associati non “reinventa” la storia, bensì le rende giustizia. Compiendo così un piccolo atto miracoloso. Un altro miracolo a Milano.

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