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Memoriale della Shoah di Milano

 

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Modelli

Condizioni di riferimento e fondamenti progettuali

Il ‘ventre’ della Stazione Centrale di Milano, invisibile spazio di manovra utilizzato tra la fine del 1943 e l’inizio del 1945 per la deportazione di ebrei e oppositori politici verso i campi di annientamento e di concentramento nazisti, è portatore di una storia costituita da materiali fisici -l’ossatura in vista segnata dal tempo che permea l’intera morfologia del sito, banchine, binari, vagoni- e materiali culturali -le testimonianze dei sopravvissuti-.

Il progetto del Memoriale della Shoah rielabora lo stato di ‘reperto’ della struttura in cemento armato della stazione -risultato della contaminazione fra tempo, materia e memoria- e il racconto dei testimoni, quali condizioni imprescindibili e fondamentali per la legittimazione di tutte le nuove opere di allestimento permanente.

L’oggettivazione della Memoria della deportazione avviene costruendo una sequenza di spazi e dispositivi di documentazione e testimonianza capaci di stabilire, mediante l’esperienza psicologica e corporea dei visitatori, una nuova narrazione.

 

La stazione diviene quindi oggetto di un’interpretazione progettuale basata su un scavo nel suo interno, al contempo ideale e oggettivo, che ne rivela la consistenza immanente e ‘totale’ di reperto archeologico della nostra contemporaneità. Il progetto rilegge la coincidenza tra forma e struttura propria del sito, tramite un ‘principio di distanziamento’ concreto e temporale tra i nuovi interventi e la preesistenza.

Rileggendo i materiali della stazione -cemento, ferro, legno e vetro- attraverso la loro attualizzazione e montaggio, il progetto testimonia esso stesso senza aggiungere commenti, dichiarando così l’impossibilità di integrarsi con questo luogo, di contaminarsi con esso: rimisura e interpreta l’area delle deportazioni in quanto documento-monumento storico, per riaffermare la centralità delle testimonianze, dimensione etica della Memoria e fondamento per la costruzione di un Laboratorio del presente.

 

Interpretazione del luogo: progetto e racconto

Attraversare gli spazi di manovra abbandonati della Stazione Centrale ci ha fatto comprendere, fin da subito, che progettare un Memoriale della Shoah in questo luogo significava innanzitutto affrontare il tema della dimenticanza. Esperire quegli stessi spazi, la loro ‘presenza’ insieme ai sopravvissuti, ci ha consentito di percepire che il sito-documento non era più in grado, in sé, di narrare la propria storia e che “la memoria non è uno strumento, bensì il medium stesso, per la ricognizione del passato …” (Walter Benjamin).

 

La dismissione e il definitivo abbandono avvenuto alla fine degli anni ’90 delle ‘invisibili’ aree di smistamento postale a ridosso del fabbricato viaggiatori è una forma di oggettivazione dei meccanismi della dimenticanza come rifiuto della responsabilità. È la prova concreta della rimozione di un pezzo di storia nazionale, politica prima ancora che socioculturale, dalla coscienza collettiva dell’Italia a partire dalla fase della sua ricostruzione: la partecipazione allo sterminio, dapprima con la promulgazione della legislazione antisemita come atto inaugurale della persecuzione di Stato, poi con la partecipazione attiva agli arresti, alle detenzioni, agli eccidi e infine alle deportazioni.

Ma questa forma storica della dimenticanza, che a causa della sua dimensione di lunga durata sarebbe forse più utile definire ‘tradizione della dimenticanza', è anche stata, involontariamente, l’origine della conservazione di questo luogo -probabilmente l’unico caso di sopravvivenza di una stazione di partenza- dalle distruzioni belliche e dalle cancellazioni postbelliche, che hanno rimosso dalle città europee gli scali ferroviari delle deportazioni, di cui oggi, solo in qualche caso, avanzano frammenti e rovine.

 

Agli inizi degli anni Duemila il sito si presentava come area tecnico-logistica della complessiva macchina infrastrutturale della Stazione centrale, svuotata del suo senso originario -un’area di manovra postale- e da quello attribuitogli successivamente: un luogo di barbarie.

Lo spazio sopravvissuto solo strutturalmente integro, nei sessant’anni successivi al 15 gennaio 1945 -data dell’ultimo trasporto documentato di prigionieri ebrei partito da questi binari- ha subito una sorta di annullamento di significato attraverso le successive manomissioni, modifiche e mascheramenti: rimozioni che ne hanno alterato materialità e spazialità, quindi la sua stessa forma e riconoscibilità.

Attivare la coscienza della mancanza e dell’interruzione della storia determinata dalla Shoah attraverso il progetto del Memoriale, è stato per noi il tentativo di innescare uno spostamento, che non riguarda solo la dimensione del senso perduto, ma soprattutto di attribuire un significato nuovo. Il progetto più che fornire risposte ha cercato di interrogare il sito per radicare in esso un significato intelligibile, quindi utilizzabile per il presente: non uno statico museo, ma un luogo di esperienza attiva, dove la Shoah non sia ‘risolta’ mediante la sua riduzione ad una collezione di oggetti-reperti e immagini da riordinare all’interno di vetrine e pannelli, dove non venga quindi didascalicamente spiegata e “compresa”, ma possa essere documentata e testimoniata; “conosciuta” attraverso un sistema di spazi -essi stessi reperti- organizzati per la rielaborazione, che sia al contempo un Memoriale e un laboratorio di attività permanenti, una sorgente della Memoria.

 

Scavare e ricordare

La ricerca e il ritrovamento del senso mediante la costruzione del Memoriale sono stati avviati con un’operazione di ricostituzione di un fondamento riconoscibile, attraverso una sorta di ‘scavo archeologico’. Riportare al loro stato originario le strutture in vista che connotano la morfologia del sito, ha significato evidenziarne la condizione oggettiva e visiva che ne rivela la consistenza immane e ‘totale’ di reperto archeologico della nostra contemporaneità, mantenendo e sottolineando le tracce delle imperfezioni del processo di costruzione -i getti difettosi- e le condizioni di degrado dovuto all’azione del tempo e alle trasformazioni subite dall’edificio -‘memorizzate’ dagli elementi che palesano lacune, incrinature, rotture-, ovvero ‘raccogliendo’ e mostrando le testimonianze fisiche della storicità del luogo. Le strutture di cemento armato esposto dalle superfici intaccate, le corree di fondazione consumate che riemergono dal terreno, le colonne danneggiate dalle rimozioni e i solai Hennebique con le loro caratteristiche travi ricalate, segnate dai nidi di ghiaia e dai ferri in vista, finalmente liberate dalle aggiunte, dalle tramezzature posticce, dalle demolizioni e alterazioni, dall’applicazione di successivi strati di intonaco e dalle controsoffittature, ‘non mentono: sono reperti autentici, immagini-fatti che veicolano la violenza di cui il sito è stato testimone, costituiscono “fenditure nella materia del presente che mettono a nudo pezzi di memoria, frammenti che ancora ci interpellano […] lettere di una scrittura che precede ogni alfabeto” (G. Didi-Huberman). Queste superfici corrose sono ora espressione della contaminazione tra tempo, materia e memoria; profondità della storia che ricompongono una dimensione narrativa, parlante ed immediata nella sua evidenza e brutalità oggettiva, oltre che simbolica di ferita dello sguardo.

 

La dimensione ‘archeologica’ che concreta la presenza di questo documento-reperto nella città contemporanea coincide quindi con la sua qualità immediatamente evocativa di ‘rovina’ e, di conseguenza, al suo carattere di sospensione. Il rapporto che la rovina -in questo caso un ‘reperto’ della modernità- stabilisce in forma evocativa tra il tutto (la rovina e il frammento rinviano ad un intero) e la parte -il sito stesso è parte di un insieme organico-, contribuisce ad attivare la memoria fino a farla divenire storia.

L’area di manovra è quindi un ‘reperto’ capace di generare significati che concernono il rapporto con gli eventi storici e al contempo di raccontare, evidenziandone così la dimensione narrativa (forza allegorica che alimenta una narrazione) e “il rilascio della forza di espansione del ricordo trattenuto nel frammento”: reperto archeologico come “forza immaginativa e ricostruttiva del tutto”, ovvero “immagine-fatto” che segna l’appartenenza del luogo alla complessiva geografia della Shoah.

 

Le strutture della Stazione centrale in cemento armato esposte in stato di rovina, costituiscono in tal senso le proprie immagini-fatto, insieme realizzano una warburghiana pathosformel che riannoda il passato e il presente, dove forma e contenuto coincidono a causa dell’indissolubile intreccio tra carica emotiva e formula iconografica.

Lo scavo progettato -che comprende la demolizione di una vasta porzione del solaio della prima campata verso strada per connettere spazialmente il piano terreno con l’interrato, in origine separato dalla restante parte dell’area- realizza quindi una sorta di doppia archeologia: quella del reperto e quella dello sguardo; relazione tra la ‘rovina’ della stazione e il visitatore che la osserva e ne fruisce in presenza.

Il cosiddetto patio che risulta come vuoto generato dalla demolizione del solaio della prima campata ristabilisce, in quanto intervallo tra l’atrio d’ingresso e la fronte della biblioteca, il senso della mancanza, lo scarto tra la percezione scomparsa e quella attuale che, ora, l’essenza originale del sito può finalmente esprimere. È in questo senso che lo ‘scavo’ iniziale rivela l’archè del luogo e insieme ad essa rappresenta la condizione imprescindibile di legittimazione di tutte le opere realizzate, proprio nel rapporto che riesce a istituire tra la testimonianza del passato e il progetto del nuovo, tra la brutalità delle superfici della stazione e la politezza dei nuovi interventi. Il progetto per la Memoria che è dunque accertamento del ricordo, è al contempo percezione visiva, un’archeologia che quindi non è solo scienza degli inizi, ma anche disciplina del presente stratificato, linguaggio espressivo e narrante, un’anamnesi per capire il presente. Ma come è possibile attraverso un progetto di architettura “riaprire il passato” e trasformare un luogo di barbarie in un luogo di cultura?

 

La disciplina delle campate e il principio del distanziamento

La conservazione della stazione come rovina non coincide quindi con una forma di palingenesi ma è, al contrario, una modalità di restituzione che avviene mediante la modificazione critica di un sito storico in una struttura museografica contemporanea. Essa costituisce dunque il piano di appoggio per orientare lo sviluppo progettuale, in quanto strumento di ricerca sul modo di attivare la narrazione da parte del reperto-documento. Rileggere la morfologia del luogo diviene la condizione di costruzione e articolazione degli interventi, secondo un principio che abbiamo provvisoriamente delimitato col termine distanziamento. Le cinque campate a sezione variabile che individuano il sito, accostate con sviluppo di 100 mt per una profondità di circa 60 mt, formano uno speciale spazio lineare in sequenza, ritmato dal passo delle strutture che ne misurano il volume e la presenza, attraverso il ritmo delle gigantesche colonne, la teoria delle travi ricalate con passo 1 mt, le colossali corree di fondazione esposte. Queste strutture definiscono lo spazio attraverso l’immane scheletro di cemento armato che tutte insieme formano: gigantesca ossatura in vista, immagine-fatto, in cui forma e contenuto coincidono. Rileggere il ritmo ossessivo delle strutture a ponte significa rispettarne la geometria ma anche distanziarsene per stabilire una nuova idea di ordine, perché in questo luogo nessuna forma di integrazione e di mimesi tra esistente e nuovo risulta secondo noi possibile. Distanziare i nuovi interventi dall’esistente significa rileggere la “disciplina della campata” e la sua ripetizione per successivo accostamento come occasione di costruzione di un sistema di riferimento geometrico a griglia, che orienta i tracciati ordinatori dei nuovi interventi. Questa fondazione planimetrica del progetto è materiale da rileggere ma anche da trasgredire per coniugare una nuova idea di ordine come essenza, con quella del sito nella sua dimensione di lunga durata. Il tipo della campata rappresenta al contempo la condizione per rendere precisamente percepibile la transizione tra le diverse condizioni di finitura dei materiali utilizzati -i medesimi di cui è costituita la stazione-, tra struttura originaria e nuovi interventi, in ultima analisi tra storia e presente.

 

La disciplina della campata riletta attraverso il distanziamento introdotto dal progetto evidenzia la concomitanza figurativa di pianta e sistema costruttivo, coincidenza architettonica tra struttura, forma e contenuto che i nuovi interventi cercano ogni volta di documentare, sia che si tratti di opere in cemento armato -il muro dell’Indifferenza e della rampa nell’atrio d’ingresso, il muro dei libri all’interno della biblioteca; i volumi cilindrici della scala sospesa e quelli degli ascensori-, sia di opere in acciaio -la struttura esposta della biblioteca che rilegge il passo delle strutture della stazione, quelle ‘sospese’ dell’Osservatorio che si affaccia sulla fossa di traslazione sud dell’area dei binari, delle Stanze delle Testimonianze che rivelano la struttura portante e del Luogo di Riflessione nel suo essere volume composto di strati percepibili nel loro sistema di montaggio.

 

Allestimenti permanenti

Attraversare, esperire, testimoniare: dispositivi architettonici e configurazioni narrative.

Lo spostamento del punto focale da museo a Memoriale generato dal progetto, determina una traduzione spaziale attraverso una sequenza di configurazioni narrative (Paul Ricoeur), realizzata mediante un sistema di allestimenti permanenti, dispositivi di testimonianza e documentazione che riorganizzano il sito secondo una geografia di luoghi che sono nuclei di esperienza fisica e simbolica. Gli allestimenti, tutti basati in pianta su forme geometriche elementari -quadrati, rettangoli, triangoli, cerchi- ricompongono una sorta di alfabeto primario delle forme, sorta di scrittura logografica ‘primitiva’, pre-linguistica, che articola un sistema di figure generative innestate negli spazi-campate, per riconsegnare centralità ai temi della trasmissione, ricezione, rielaborazione e polarizzazione della Memoria, nel suo incessante movimento tra l’incommensurabilità dell’accaduto e la dimensione dell’esperienza soggettiva. In quanto figure emblematiche della ragione e della razionalità umana, sono geometrie definite dal principio di indeformabilità che all’interno del Memoriale risulta invece intaccato e reso precario da una successione di variazioni che ne fanno perdere la percezione univoca e, di conseguenza la loro riconoscibilità certa. Le regole fondamentali sono stabilite, come nel caso delle Stanze delle Testimonianze poste al centro del sito: volumi di acciaio disegnati sul quadrato, quindi virtualmente cubici, ma che ogni volta declinano la loro sagoma in variazioni che ne deformano leggermente l’involucro attraverso lo slittamento e l’inclinazione delle pareti e delle coperture, gli squarci che interrompono le facce dei volumi e ne travalicano la delimitazione, per aprire lo sguardo dei visitatori al rapporto con le strutture della stazione, alla parete di legno corroso dal tempo formata dai vagoni merci che le fronteggiano, allineati sul primo binario.

 

La corrispondenza tra i volumi tronco-conici che delimitano alle estremità sud e nord l’area dei binari, l’Osservatorio posto in asse tra l’ingresso principale e la fossa di traslazione che dà accesso al montavagoni e il Luogo di Riflessione ‘sospeso’ nella fossa di traslazione settentrionale, avviene per mezzo della loro diversa collocazione nella geografia della stazione nascosta. Il primo posto in orizzontale e in forte sbalzo sul vuoto della fossa di traslazione sud, stabilisce la transizione del visitatore dallo spazio dell’area centrale (la hall delle Testimonianze) alla dimensione progressivamente ridotta del cono metallico fino a divenire spazio che permette un’esperienza individuale, producendo un effetto estraniante a ricordo della compressione psicologica e centripeta narrata dai sopravvissuti, vissuta nel momento del passaggio traumatico e travolgente dall’atrio d’ingresso ai vagoni merci. È “un singolare intreccio di spazio e di tempo.

 

Il Luogo di Riflessione è invece uno spazio rivolto verso l’alto e rappresenta la cerniera di transizione, di sospensione tra l’area del Memoriale (Osservatorio-Testimonianze-banchine e vagoni-Muro dei Nomi) e quella del Laboratorio della Memoria (Biblioteca-centro di documentazione, Auditorium, aree didattiche e locali di appoggio). Diversamente dall’Osservatorio, esso misura per distanziamento il suo rapporto con l’area dei binari, con il meccanismo delle deportazioni di cui è testimone: si disloca sul piano ferroviario e ricostruisce un intervallo per rimettere l’uomo al centro. Attraverso l’interpretazione critica del documento-monumento, riafferma mediante l’architettura un principio di responsabilità e la dimensione etica della Memoria.

 

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Memoriale della Shoah

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